|
|
|
|
|
|
Quando Dante Alighieri passò da Compiobbi, alla fine di maggio del 1289, con le truppe guelfe fiorentine che si recavano alla battaglia di Campaldino, alla vista del nostro paesello, contrariamente a quanto ci si aspettava, sul momento non disse niente. Mal gliene incolse! Cinquanta anni dopo, nel 1440, il poeta burlesco Burchiello, anarchico ed esule antimediceo, non si lascia sfuggire l'occasione e cita Compiobbi in un suo sonetto. Finalmente, nel 1880, il padre scolopio Mauro Ricci pubblica il volume I riposi di Compiobbi, una raccolta di scritti dedicati al paese che l'ha ospitato nella residenza estiva che i padri delle Scuole Pie avevano alla Villa Rosa. Il libro inizia con un atto d'amore verso Compiobbi:
«Io ti saluto, o gentil paesello di Compiobbi, che, a guisa d'una bella ragazza alla finestra, ti specchi tranquillo sull'Arno; ed egli da tanti secoli sempre giovane e vigoroso ti passa dinanzi riverente, col monotono rumorio dell'onda ripetendo il vecchio ritornello di tutti gli innamorati: Io ti amo!»
Ma un compagno di fede, lo scolopio Giuseppe Manni, 18 anni più giovane, non vuol essere da meno. È una vera e propria gara, che sfiora la gelosia, a chi vuol più bene a Compiobbi. Nelle vacanze di meditazione "alla Rosa" nel 1881 gli dedica queste reboanti e sdolcinate rime.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Anch'io t'amo, o Compiobbi. A le tue poche rustiche case biancheggianti in fila tra la via polverosa e la sonante onda dell'Arno io guardo ogni mattina con perenne disio da la finestra della villa, che quasi a te sovrasta e me con gli autunnali ozî ricrea. È vent'anni tra poco, ed io ti guardo ogni sera da'I colle onde ti cade la prima ombra notturna: e su 'I tuo ponte che cavalca lo Zambre e su la piazza coronata di tigli, ove s'aduna la gente a i dì festivi, arcanamente consolato l'errante occhio si posa. O mio povero borgo, o da te salga come voce fraterna a le mie soglie il suon dell'opre e delle donne il canto, o taccia fra gli aperti usci e le brune stanze presso a 'I telaio inoperoso l'ozïata domenica, tu piaci a' l cor, povero borgo, e quel diletto che mi nasce da te non muterei con la più vaga cittadina usanza. Amo questo orizzonte; e bella ancora dopo tanto vederla è questa lunga angusta valle da 'I ceruleo grande Arno rigata, e quinci e quindi i poggi alti verdi continui fino a i monti del Casentino. A me di questa valle in ogni aspetto trema una gentile imago, e presso a quella una memoria della mia giovinezza. Era la dolce mia giovinezza allor che prima io venni a te, Compiobbi; e nova a 'I tuo cospetto orrida bella passava l'alata maestà del vapore. I tuoi fanciulli guardavan da la piazza il lungo mostro mirabilmente in grande arco piegarsi, come fa l'Arno, innanzi a le tue case; e poi ratto laggiù dietro a i cipressi sibilando nascondersi fumante: guardavan da la piazza i tuoi fanciulli attoniti ridenti, ed io da questo prato, che delle voci o del fraterno canto sonava. Il cor, che nell'affetto di mille alunni si compiace ormai, qui riposava allor da le novelle gioie dell'educare, a le nascenti cure illudendo. Oh dolci allora i sogni della mia mente in faccia a questo cielo, quando assiso a la grande ombra de' pini, o tra Romena e Bagazzano i colli solitari cercando, io meditava le mie speranze, e della gloria il viso adombravo negli atti e nel sembiante d'ogni fanciulla. Oh matutine ebbrezze su i giochi alti imminenti a Vincigliata, seggio di fate, contemplando l'ampia vallata fulgidissima, e Firenze rosea scintillante sotto i baci del novo sole; ovver ne' tuoi fioriti meandri, o bosco delle altere Falle, quando il maggio esultava e fra le liete ombre e le guglie sparse e le vetuste finte reliquie a me parea lo spirto errar di ninfe antiche, e vivi a l'aura fresca echeggiar dell'Ariosto i canti. Età beata! Allora in tutte l'opre spirava amore, e le vegliate carte e la preghiera e i ludi eran sereni come il tuo cielo, o come a mezzo il giugno le tue feste, o Compiobbi. E tu l'aratro per queste balze fertili guidavi a me coevo, o Nando. I tuoi begli occhi testimoni del core e l'ardua fronte, onde visibilmente tralucea l'ingegno inconsapevole, mi stanno
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
dinanzi ancor. Te salutarmi primo qui vidi e primo arridermi tornando da i vendemmiati campi, onde s'impresse sì come buona immagine fraterna in me la tua sembianza. O Nando caro, il viale ove spesso io mi solea fermare a ragionarti (e i bovi intenti stavan coi mansueti occhi guardando) il rosato viale io salgo ancora, ma te non veggo più: come i miei sogni passasti, e meco la tua vecchia madre, giovine morto, ti rammenta e piange. I miei sogni passar; come leggiere nuvole al vento dileguaron tutti i beati fantasmi, e d'ogni fama non che la speme il desidero è spento, pur qualora ritorno a questi colli ammantati di vigne, a la declive selva di Pontanico arcanamente silenziosa sotto il cielo azzurro, e Paiatici là rifulge a mezza costa seduto fra le querci e chiama; mi par che i declinati anni risorgano come larve d'amici, e tu, Compiobbi, sorridi a me giovenilmente ancora. Quanto palpito ancor, quanto superbo desiderio d'amore e di bellezza fra questi campi, allor che da le opposte cime fiammanti sale ad inondarli il sole eterno giovine, e la vita e l'eterna armonia della natura corre pei solchi co' torrenti d'oro! Quanti dolci pensier, quando a i sereni vesperi lietamente ei declinando veste di bruna porpora le spalle a l'Incontro nimbifero e la torre di Montauto! Ma più dolci e sempre soavissimi voi del mesto ottobre ultimi occasi, quando circonfuse d'un velo tenuissimo di nebbia, come pensose Driadi, le ville guardano nel silenzio, e la campagna pallida immota sta come la casa dov'è scesa la morte. Onnipossente tenerezza ineffabile circonda l'anima allora, amor brilla di care lacrime, e in un dolcissimo indistinto pelago di memorie e di desio malinconicamente il core annega. Oh! chi mi dà, lontano a le battaglie cittadinesche, ricrearmi ancora in questa pace? Le nevose brezze e sotto il cielo plumbeo tremanti gli alberi ignudi me non cacceranno se in cor l'estate e in mano è la dorata strofa d'Orazio. Il consueto clivo fra i sepolcri di Quintole e la verde prossima villa, è sede aprica a i canti anco d'inverno: a lato amore e morte, di faccia Iddio su 'I venerato giogo di Leonardo. A rinnovar gli auspicî delle lunghe fatiche glorïose lassù traeva il santo, e giorno e notte sotto la quercia che fronteggia ancora pregava innamorato. Innanzi tacite passar le nubi come spettri, o lunge come laghi di fiamma arder le valli ei non vedea, ma sfere radïanti d'eterno lume e gloria e nell'abisso della felicità trasfigurarsi i mondi a poco. Un celestiale sorriso intanto gli fioria su 'I macro volto e le labbra sante, e con divino fremito intorno palpitava il monte. (Giuseppe Manni, 1881)
|
|
|
|
|
|
|
 |
|
|
|
|
|
Uno scorcio della Villa Rosa, oggi chiamata Villa Pisa, in una cartolina della Collezione Carlo Benvenuti, spedita nel 1913. In primo piano, in attesa del «mostro del vapore», si vede un prete con la tipica pancetta professionale, nascosta dalla tonaca chiusa sul davanti dagli innumerevoli bottoni e bilanciata dalle mani dietro i reni. Non si tratta, però, di uno degli Scolopi sopra citati, perché, all'epoca, i religiosi se n'erano già andati da alcuni anni. La villa, proprietà degli Scolopi fin dal 1767, aveva subito un sequestro, secondo un decreto di Leopoldo II e messa all'asta nel 1868. Una sottoscrizione a cui partecipò persino Bettino Ricasoli, il Tommaseo e Gino Capponi permise agli Scolopi di rientrarne in possesso, intestandola al confratello Paolino Ansani e di usufruirne ancora per 43 anni, fino alla sua morte. Nel 1910 fu venduta ai sigg. Picchiani.
|
|
|
|
|
|