ARCHIVIO DEL TEMPO CHE PASSA
COMPIHOBBY


IL DOTTOR PUCCI DA FILICAIA: 33 ANNI AL SERVIZIO DI UNA COMUNITA' SUPERSTIZIOSA
A cura di Berlinghiero Buonarroti e Michele Turchi
(L'Oculista n° 25)

Mestieri

Come si può vedere
nell'  immagine della Piazza di Compiobbi, nel 1934 la lapide dedicata al dott. Pucci era ubicata in un punto diverso, proprio sopra agli sporti della trattoria Raimondi. Era sormontata da un bel busto in bronzo del dottor Pucci, che fu "donato" alla causa fascista per essere tramutato in materiale bellico. Il calco in gesso che era servito per la fusione del busto era ubicato nella cappella di famiglia nel cimitero di Torri. Forse non è un caso che il busto di gesso, opportunamente dipinto d'ottone in modo da simulare il materiale di una lega, sia stato rubato nel 2000 da ladri di "bassa lega"?
La piazza, allora, era molto bella, ancora non infestata da numerose macchine bivaccanti" in sosta. In primo piano si vede una macia di sassi e sull'angolo, quasi invadendo l'Aretina per farsi notare, si scorge la tipica colonna distributrice di benzina della Esso, attiva fin dal 1928 e che aveva una capacità di soli 25 metri cubici. Nella parte destra della piazza, accanto alla pizzicheria si può notare l'insegna della Farmacia.
(Cartolina della Collezione Carlo Benvenuti)

La lapide sta lì dal 30 marzo 1924, ma gli abitanti di Compiobbi non la vedono più perché, ormai, fa parte del paesaggio. Solo gli immigrati degli ultimi anni, che ormai ammontano a più di mille, si chiedono incuriositi chi fosse mai quel tale dottore Giuseppe Pucci da Filicaia (1859-1922) tanto da meritarsi una targa di marmo a imperitura memoria. La targa precisa che fu per ben 33 anni il medico condotto del paese e questo dato la dice lunga sul "lungo" affetto dei compiobbesi per il proprio medico di famiglia. La lapide, collocata poco dopo la morte del dottore in seguito ad un incidente motociclistico con la sua BSA, appella il dott. Pucci da Filicaia con un bel N.H, che vuol dire "nobil uomo". Alla nobiltà di stirpe, il nostro medico chirurgo affiancava una nobiltà d'animo. Tanto è vero che, in una lettera inviata al sindaco di Fiesole nell'aprile del 1890, "accettando di buon grado gli oneri inerenti alla condotta nel distretto di Compiobbi", dichiarava di rinunciare ai diritti degli aumenti quinquiennali, accontentandosi di sole lire 1250 invece di 1500.

Il nostro dottore era anche un benefattore: invece di farsi pagare dalle famiglie più povere spesso donava lui stesso dei soldi a quelle famiglie bisognose.

Erano altri tempi. Tempi in cui si moriva di malattie dai nomi più poetici rispetto a quelle d'oggi giorno. "Morto di gocciola", si diceva, non nel senso che era stata la "gocciola che fa traboccare il vaso" a mandarti al creatore, ma quella che oggi chiameremmo apoplessia. La ragione per cui si diceva "sono spacciato, m'è cascata la gocciola!" era, secondo l'opinione di Aristotele, a causa del "rappigliarsi dell'umore nel cuore". Oggi sappiamo  che si trattava di un travaso di sangue nel cervello.
A volte si moriva di crepacuore, oppure di "stravaso di bile al cervello" o di una non meglio precisata "collinaia", come si legge nei libri dei morti di Torri e Pontanico. A far concorrenza al dottor Pucci c'era la fede nei medicamenti tramandati per tradizione popolare, infarciti di superstizione e di quella infondata e paurosa credenza in cose soprannaturali più grandi delle possibilità umane.

Una bella immagine del dott. Giuseppe Pucci da Filicaia in divisa di medico militare. Era stato richiamato per la guerra 1915-18 quale maggiore medico. Prestava servizio a San Gallo e la sera, di ritorno dall'ospedale militare, faceva visita ai suoi pazienti compiobbesi., i quali, riconoscenti, si sono ricordati di Lui dedicandogli una via all'inizio degli anni '30. (Dono di Luigina Bacci all'Archivio del Tempo che Passa)

Jolanda Innocenti di Molin Laura e Guido Galli del podere Casanuova di S. Donato a Torri ricordano, ancor oggi, tutta una serie di medicamenti empirici:
· Ogni volta che ci si ammalava ci si purgava col puzzolente infuso di "sena", comprata in farmacia: "era la prima cosa da fare!".
· Contro lo spavento si lavavano le parti scoperte del corpo con infusi di "erba da paura". Si trattava della siderite o stregonia che cresceva lungo i fossetti. Si procedeva a una abluzione con un decotto delle sue foglie essiccate, che leniva lo stato di ansia. Il lavaggio, accompagnato da una cantilena, andava fatto in senso discendente (verso i polsi o le caviglie) e andava ripetuto finché l'aspetto dell'acqua non era limpido.
· Gli orzaioli venivano cuciti con ago senza filo, passato davanti agli occhi, simulando un rammendo e recitando preghiere, dopodiché veniva applicata una fetta di patata per sfiammare.
· I porri sulle mani venivano "segnati" gettando in un pozzo tanti fagioli o sassolini quanti erano le piccole escrescenze cutanee.
· Le resipole venivano "segnate" e guarite con un impiastro di foglie di lattuga.
· La polmonite veniva "curata" col sangue di lepre, essiccato e inghiottito dentro un'ostia. La materia prima veniva fornita dal colono Paolo Cassi, detto Bischenchi, di Ontignano. Altro rimedio consisteva nello squartare due piccioni vivi e metterseli, ancora caldi e sanguinanti, a fasciarsi i piedi nudi.
· L'itterizia veniva "annientata" inghiottendo tre pidocchi involtati in un'ostia.
· Il fuoco di S. Antonio veniva curato col sangue del guaritore stesso o con quello di una gallina nera.
· I frignoli venivano fatti maturare, fasciandoli con una buccia di cipolla.
· Per eliminare i geloni con le "spaccature" si doveva camminare scalzi sulla neve.
· La "tosse cavallina" o pertosse si curava facendo respirare al bimbo l'esalazione del calore di una fornace da calce.
· I "bachi" (gli ossiuri, piccoli vermi filiformi che vivono come parassiti nell'intestino) si debellavano spezzettando in un bicchiere d'acqua del filo bianco della lunghezza di due centimetri. Se i bachi erano presenti i pezzetti di filo si muovevano nell'acqua, se invece non c'erano rimanevano fermi. L'operazione, che era denominata "incantare i bachi", andava ripetuta più volte finché i pezzetti di filo non rimanevano fermi. Era importante rispettare tutti passaggi del rito, altrimenti i bachi maligni avrebbero potuto risalire verso la gola del bambino, provocandone il soffocamento.
· Per il malocchio si usava un piatto pieno d'acqua nella quale si versavano tre gocce d'olio. Se la macchia d'olio si disfaceva: era malocchio! A quel punto si intuffava il dito nell'olio e si facevano tre segni di croce alle tempie e in fronte. L'operazione andava ripetuta tre volte e l'acqua con l'olio andava obbligatoriamente gettata nell'acqua corrente.


Molti di questi riti erano "officiati" dalle settimine, donne nate di soli sette mesi o al settimo parto della madre, cui la tradizione popolare attribuiva particolari poteri magici e taumaturgici. Riti e formule si tramandavano per via matrilineare, di solito durante la notte di Natale, secondo modalità tenute segrete.